Quello che le partite non dicono: la Roma verso la partita verità contro il Napoli

Considerazioni sulla squadra capitolina partita in sordina ma ora accreditata come nuova aspirante ai primi posti della Serie A

Chi segue il calcio sa che si tratta di un mondo in cui con le certezze si gioca a tennis.
Ognuno lancia oltre la rete le sue per vedersele restituite diverse o non rivederle mai più; ogni sei punti (che spesso non coincidono con sei giornate) poi, si serve con “certezze nuove”.
Una partita sorprendente si sta giocando in questi giorni; è quella in cui se servi un allenatore vincente si lascia lavorare l’altro risponde con l’esonero di Ancelotti e la conferma di Baroni; se metti tutta la forza che hai in uno smash facile facile tipo Zeman segna ma ne prende troppi quell’altro si arrampica in tribuna per rimandarti tre partite di fila senza prendere goal (con effetto ad uscire ce ne ha infilata in mezzo anche una da 0-0). Punto e match point. Cala il silenzio, sei a un passo dalla capitolazione, i rimbalzi nervosi della pallina sembrano tuoni nel buio silenzioso della notte.
Ok, o la va o la spacca, tutto in questa palla: ti giochi il colpo sicuro, quello in cui sei insuperabile ”D’Alema non si scusa mai”. E’ un servizio all’incrocio delle righe, imprendibile. Stai già per spostarsi per servire dall’altro lato quando l’avversario con un miracolo ci arriva e con la punta della racchetta la mette lungo linea. Ha vinto!
Ma non è possibile, che diavolo di colpo è? Non vuoi uscire dallo stadio senza saperlo; cerchi il segno della palla e, quando lo trovi leggi: “Giudizio affrettato, mi scuso con Di Francesco”.
Diciamocelo chiaramente: questo giudizio era il più diffuso tra i media a qualunque livello ed era predominante anche tra i romanisti. Di Francesco si presentava come un allenatore con poca esperienza ed era etichettato come zemaniano di ferro. Il suo definirsi “difranceschiano” non aveva convinto quasi nessuno, tant’è che la densa coltre di scetticismo attorno a lui non si era affatto diradata. I bene informati (pochi) sapevano della sua duttilità e delle sue grandi capacità di lavoro sui giocatori e coi giocatori. Ma per la stragrande maggioranza dei critici era destinato a capitolare presto, incapace di gestire un gruppo di campioni e di portarli a lavorare compatti inseguendo la concretizzazione della sua filosofia di gioco. Addirittura nelle griglie di partenza qualcuno escludeva la Roma dalle prime 4. Potenza del mercato faraonico del Milan, della bellezza da playstation del gioco di Sarri, della fiducia cieca nelle doti taumaturgiche di Spalletti e della capacità di signoreggiare della Signora.
L’avvio di campionato con la vittoria a Bergamo era un segnale forte almeno sul piano della compattezza del gruppo ma i segnali vanno capiti. Si dice che alla fine sia il campo a parlare ed è vero. Ma è un parlare criptico, fatto di urla, silenzi e sussurri di segnali chiari e di input da decifrare. Le partite son così, dicono e nel contempo non dicono. Ed il bello del calcio non giocato sta tutto lì, in ciò che ognuno capisce o crede di aver capito.
La gara di Bergamo ha urlato che la condizione fisica era precaria, che 7 giorni di ritiro in montagna sono pochi e che partire per la tournèe americana Fantozzi lo avrebbe paragonato alla Corazzata Potemkin.
Ciò che il match non ha detto apertamente è che Di Francesco ne fosse perfettamente consapevole, che sapesse che per il calcio champagne c’era da aspettare e che l’importante fosse una grande attenzione alla fase difensiva libera di sconfinare anche in arroccamenti di mazzoniana memoria.
Il match con l’Inter, invece, è stato un vero compendio di storia romanista; di quelli utilissimi come ripasso per i più grandi e grandemente formativo per lupacchiotti alle prime armi.
Grandi giocate, grande sfortuna, un po’ di supponenza, l’ingiustizia (rigore di Perotti non visto e non valutato con il var), la beffa del pareggio, lo smarrirsi tipico del pugile sicuro di vincere ai punti che incassa il primo gancio improvviso, la disfatta.
Ma tra le righe del non detto c’era altro. C’era l’affacciarsi di una buona dose di integralismo difranceschiano. Quando Spalletti sbilancia pericolosamente l’Inter con l’inserimento di Dalbert e Joao Mario, Eusebio non reagisce da tattico ma da integralista del 433. Cambia Defrel con Elshaarawy invece di passare ad uno speculare 352 da difesa e contropiede. Mossa che pagherà cara ma dalla quale imparerà anche tanto come dimostra la partita di Champions in cui, appena la pressione dell’Atletico Madrid si fa opprimente, inserisce Fazio, ritrova equilibri, torna persino a pungere in avanti e, complice la grande serata di Allison, strappa un buon punto.
Le gare con Verona, Benevento e Udinese lanciano chiari messaggi di miglioramento della condizione fisica, maggiore fluidità del gioco e una buona profondità della rosa giallorossa. Cosa non rivelano chiaramente a chi si sofferma solo sulla pochezza degli avversari? Innanzitutto che la squadra cerca di seguire in tutto e per tutto l’allenatore, che è convinta della strada tracciata e conscia del fatto che il potenziale da esprimere sia di prim’ordine.
Si intravede, inoltre, la capacità di Di Francesco di lavorare coi giovani, di aspettarli e di non caricarli di troppe responsabilità. Pellegrini cresce ad ogni partita, Under fa bene col Verona e male a Benevento eppure il tecnico si dimostra sereno. Ma è soprattutto Gerson a stupire: non sembra più un corpo estraneo alla rosa. E’ costato 18 milioni, si dice sia stato soffiato ad un indispettito Barcellona eppure in un anno aveva rimediato solo una figuraccia a Torino e un biglietto di sola andata per la Francia. Di Francesco lo ha voluto tenere per lavorarci su, da lì potrebbero arrivare dolci sorprese.
La gara col Milan, giunta dopo una vittoria non semplice seppur preventivabile col Qarabag, è stata salutata come la conferma che “la Roma c’è” nella lotta per il titolo. Personalmente invece credo che il messaggio vera sia promossi con riserva. Troppo indietro il Milan nel suo processo di costruzione e consolidamento, troppo altalenante la storia romanista per credere che il primo indizio sia prova. Di sicuro vincere aiuta a vincere ma le prime risposte arriveranno la prossima settimana dopo la partita col Napoli. E non sarà importante il risultato (la prima cosa che la partita dirà) ma ciò che vedremo in campo.
Il Napoli arriva a Roma da marziano, con un gioco bellissimo praticato a memoria ad velocità folle. Ricorda la Roma del primo Spalletti che, non dando punti di riferimento, era spesso imprevedibile ed imprendibile per gli l’avversario di turno fosse esso italiano o europeo. Vinse 11 partite di fila nonostante non avesse una grande rosa. Poi perse Totti e, soprattutto, i rivali trovarono le contromisure. L’Italia è il paese della tattica per cui rinnovarsi diventa obbligatorio per resistere nel tempo.
Il Napoli ha 12 nazionali in giro per il mondo, torneranno stanchi ed avranno poco tempo per preparare la gara. La Roma darà alle nazionali 11 giocatori, ha un discreto numero di acciaccati (Schick, De Rossi Karlsdorp) e non sa se recupererà Pellegrini e Strootman per l’impegno contro i partenopei. Kolarov non ha mai riposato e probabilmente farà due partite con la Serbia. Insomma ogni allenatore in caso di sconfitta avrà scuse da accampare.
Probabilmente a rischiare di più è il Napoli che arriva all’Olimpico da favorito e con l’etichetta di squadra imbattibile.
Negli ultimi due confronti il Napoli ha perso la partita in cui le bastava non perdere perché inseguita (1-0 Nainggolan) e vinto quella da vincere in quanto inseguitrice (1-2 lo scorso anno). Tutto questo conferma la sua vocazione a fare gioco e a non gestire.
Tuttavia, quello che credo conterà davvero in Roma Napoli sarà la capacità della Roma di incrinare le certezze tattiche del Napoli. Solo così il campionato giallorosso avrà un senso perché se il Napoli dominasse e vincesse allora questa partita avrebbe già detto molto. Forse tutto.

Angelo Spada


(adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({});

Lascia un commento

P